Chi ama padre o madre più di me non è degno di me

02-07-2017 XIII domenica del Tempo Ordinario di don Fabio Pieroni

Mt 10,37-42

In quel tempo, Gesù disse ai suoi apostoli: «Chi ama padre o madre più di me non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me non è degno di me; chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà. Chi accoglie voi accoglie me, e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato. Chi accoglie un profeta perché è un profeta, avrà la ricompensa del profeta, e chi accoglie un giusto perché è un giusto, avrà la ricompensa del giusto. Chi avrà dato da bere anche un solo bicchiere d’acqua fresca a uno di questi piccoli perché è un discepolo, in verità io vi dico: non perderà la sua ricompensa».

 

La cosa che più mi ha colpito di quello che abbiamo letto è che cosa possa significare per noi l’espressione tradotta dal greco: chi ama il padre e la madre più di me non è degno di me… chi ama il figlio o la figlia più di me, non è degno di me… chi non prende la sua croce su di me non è degno di me. Cosa significa “essere degni”?

La parola che viene tradotta con “non è degno di me” è un aggettivo ἄξιος  (axios) il cui significato è “che ha valore, che ha peso, che ha importanza”, e deriva dal verbo greco  ἄγω (ago) che significa condurre, guidare. Quindi la frase del vangelo significa: chi ama il padre o la madre più di me, mi sottovaluta, non prende in considerazione quanto io valgo, non si fa condurre dai miei criteri. I suoi criteri sono altri: il padre e la madre. Ovviamente qui non si sta parlando solamente del padre carnale o della madre, o dei figli. I figli possono essere i risultati che vogliamo raggiungere, il padre e la madre possono essere dei criteri, i nostri criteri che noi normalmente cerchiamo di confermare attraverso il vangelo. Spesso senza rendercene conto noi utilizziamo il vangelo per confermare la vita tragica che abbiamo: ci siamo incaponiti ed ascoltiamo solamente ciò che ci conferma.

Allora, questo è un punto importante. Gesù dice: guardate che se uno non mi prende sul serio e mi sottovaluta, si priva della mia presenza. E cosa succede allora?

Avete sentito questo primo testo dell’antico testamento ci parlava di una donna che quando vede passare il profeta, si rende conto che non è una persona normale, ma un uomo di Dio, un santo, e decide di fargli spazio. Fa una cosa concreta, costruisce nel piano superiore una cameretta: “Facciamo una piccola stanza superiore, in muratura, mettiamoci un letto, un tavolo, una sedia e un candeliere; così, venendo da noi, vi si potrà ritirare”. Allora il profeta capisce che questa donna lo ha preso sul  serio e le dice: “L’anno prossimo, in questa stessa stagione, tu stringerai un figlio fra le tue braccia”. Attenzione, quando si prende sul serio il profeta, o il vangelo, non è che poi dopo Dio ti da quello che tu ti aspetti! Questo è un fraintendimento a cui può indurre questa lettura. La cosa più importante non è avere il figlio. Avere questo figlio in braccio, che poi è Isacco, il figlio della fede, è piuttosto una vitalità, è una vita nuova, è la presenza di Cristo dentro di noi. Il vangelo infatti ci diceva che “chi avrà perduto, cioè sottovalutato il suo modo di vivere a causa mia, accoglierà la vita!”. Potrebbe anche significare che uno avrà un figlio fisicamente, ma non è detto. Bisogna fare attenzione perché potrebbe esserci un’aspettativa idolatrica: l’ascolto della parola di Dio diventa una strategia. Quindi vedete quanto è sottile questo discorso.

Ciò nonostante Gesù dice: è necessario che per avere la vita nuova voi dovreste cogliere qualcosa che a volte necessita una priorità che mette da parte le proprie priorità. C’ è un trauma, nel quale noi dobbiamo entrare. Fidarsi del vangelo ha due aspetti: o non fidarsi affatto e diventare una persona del tutto autoreferenziale, oppure vivere l’esatto opposto, cioè ogni cosa che ti dice il profeta tu la fai. Questa è una malattia anche se alcuni la considerano una grande virtù, ma fare sempre e comunque quello che ti dice il profeta è deresponsabilizzazione, e questa assolutizzazione dell’indicazione che ci viene dal profeta è del tutto sbagliata. Ci vuole invece una via di mezzo che è quella della sapienza, per cui bisognerà che quando riceviamo la Parola, dobbiamo da una parte certamente considerare che viene da Dio, quindi cogliere che nella nostra vita esiste questa presenza, questa indicazione che non è la stessa cosa che ti ha detto l’amico tuo; dobbiamo saper cogliere l’intervento della paternità di Dio che a volte scontenta chi ti sta accanto e scontenta anche te stesso. Nonostante ciò, però, questo piccolo dramma non va risolto solamente con l’atteggiamento di chi dice “mi hanno detto così e l’ho fatto, quindi io sto a posto con la mia coscienza”. No! Si tratta di entrare dentro un travaglio che è quello della fede.

 Il fatto che il profeta mi sconvolga in qualche modo i piani, mi faccia notare altro, è quello che facciamo tutte le domeniche in chiesa. L’omelia dovrebbe darci criteri nuovi che arrivino a parlare alla nostra esistenza e ci aiutino ad uscire fuori da una autoreferenzialità. Questo è molto difficile! E’ molto più semplice che una persona segua una catechesi teologica, ma spesso anche sull’organizzazione della nostra vita c’è bisogno di subire un trauma, non possiamo essere sempre adulati.

Il profeta è scomodo, ma questa donna della prima lettura se lo mette in casa! Dobbiamo saper fare Pasqua, cioè passare ad altre visioni della vita, ad altre soluzioni, e questo suppone l’incontro col profeta che ci porta alla Pasqua. Questa Pasqua va gestita, non dobbiamo eseguire alla lettera le cose che ci sono state dette, perché queste cose vanno valutate, vanno approfondite, e non possiamo delegare la vita ad altri.

Quindi vedete che questo vangelo è estremamente importante perché ci ha parlato di come dare autorità alla Parola di Dio. La parola di Dio produce in noi una fecondità, una vitalità nuova che però va gestita non in maniera superficiale.  Prendere in considerazione queste parole è a volte scomodo, però è fondamentale perché in noi entri la vita di Dio, altrimenti noi pian piano deragliamo, anche senza accorgercene, pian piano perdiamo forza. Allora ciascuno di noi sappia che nella nostra vita ci sono dei piccoli segnali che sono inviti di Dio a riorganizzare le cose, ci sono delle scomodità che sono positive: non è vero che sto sbagliando tutto, in realtà sto andando bene, anche se ho il dissenso di mio padre e di mia madre, dei miei figli e delle mie figlie, dei risultati che ho e che non ho, delle visioni precedenti che scatenano in me un senso di colpa perché sto contravvenendo a dei cliché.

Carissimi, questa Parola, come tutte le Parole del vangelo, attiva delle dinamiche che non sono angoscianti, perché l’angoscia nasce dal fatto che noi dobbiamo essere assolutamente perfetti, dobbiamo risolvere il problema. La vita cristiana è sempre imperfetta, se per perfezione intendiamo qualcosa di apollineo; questo nel cristianesimo non esiste. La perfezione cristiana è la precarietà, la povertà, come qualcosa che va ripreso. Nel cristianesimo non si fa mai una cosa una volta per tutte. Questa dinamica, che molti vedono come una grande fatica, è il vivere, è la vita, è l’avventura, è la partecipazione della nostra intelligenza e della nostra volontà con la volontà di Dio.